venerdì 28 agosto 2009

Dedicato ad Andrea


Sembra che abbiamo ottenuto molto sugli edifici che verranno costruiti. Forse otterremo qualcosa anche per gli spazi aperti circostanti. Un giardino ben curato, prato, aiuole, e alberi, alberi da frutta, no da frutta no, quando cade fa un paciugo, allora palme, forse. Magari dei bei platani. Si, dei platani. Quello che però non avremo mai, sarà un cortile dove i nostri figli o nipoti possano andare a giocare a pallone. Vi vedo che storcete il naso. "Per carità. Te lo immagini il casino!". Sì, me lo immagino proprio.
Da qualche parte è saltato fuori questo brano (non mio, s'intende, però ora non ne ricordo l'autore, me ne scuso).
Vediamo se ve lo immaginate anche voi.

Paolo V.


Per giocare al "froebi" (andava pronunciato in modo gutturale), ossia al calcio ma non in oratorio bastava una strada sgombra, meglio senza negozi e quindi senza vetrine. L'ideale erano quelle strade di periferia larghe, spesso disertate dalle macchine con muri lunghi che tornavano utili per i rimbalzi. Non pretendevamo molto spazio: ci accontentevamo di trenta, quaranta metri liberi dalle auto. I cordoli dei marciapiedi delimitavano il "campo". Il pezzo di marciapiede con il tombino (ossia la finestrella che permetteva all'acqua piovana di defluire nelle fognature) marcava la porta. La palla doveva colpire il cordolo che circondava il "tombino": così si segnava il gol. Di solito, a Milano, lo spazio del "tombino" veniva delimitato da una lastra di pietra larga poco più di un metro. Non era facile pigliare il "tombino": normalmente l'altezza della "porta" era al massimo di quindici centimetri: occorreva mira e piede buono. Si poteva salire sul marciapiede solo per i falli laterali e il corner, il calcio d'angolo. Giocavamo ore e ore, sino allo sfinimento: sfide tra squadrette di quartiere, via contro via, condominio contro condominio. Ai maniaci del dribbling - quelli che non mollavano mai il pallone, dunque sacrosanti egoisti - gridavamo che erano dei "veneziani". Che avrebbero scartato anche la nonna. Il calcio di punizione era laborioso: purtroppo spesso il pallone finiva lontano, rimbalzando oltre il tombino. Qualche volta finiva in un balcone. C'era una vecchina a cui davamo fastidio, perchè facevamo un gran casino, specie quando litigavamo: se il pallone cadeva da lei, era perso. Per questo si veniva sempre con due palloni.
Chi sbagliava a tirare e la scagliava oltre i limiti virtuali del nostro campo doveva rincorrere la palla, difenderla dai cani ed evitare che finisse in mezzo al traffico. Il pericolo vero era quello dei vigili urbani: conservo ancora una multa per aver giocato "alla palla" al Parco Sempione, davanti alla Biblioteca: "l'emarginato", cioè il sottoscritto, doveva pagare 500 lire, che quaranta anni fa era una cifra. Altro rischio quotidiano, la scivolata sull'asfalto che ti scorticava la pelle. Ma le sbucciature erano come trofei: il ginocchio era quasi sempre una crosta che non si rimarginava mai. L'abbigliamento sportivo era limitato ad un paio di scarpette da ginnastica e i pantalocini corti che indossavamo sotto i pantaloni lunghi. Ci spogliavamo al volo e infilavamo il tutto nelle "sacche" che spesso fungevano da "pali" delle porte. Poi, quando calava il sole e cominciava a far fresco - si giocava in autunno e in primavera - chiedevamo asilo al bar più vicino. Usavamo la toilette per asciugare il sudore (guai se tornavamo a casa con le camicie inzuppate) e ci "sparavamo" una cedrata Tassoni o una gassosa. Se c'era il calciobalilla, si ricominciava con le sfide. Poichè una partita costava cinquanta lire, per farle durare di più infilavamo i guanti nelle porte e recuperavamo la pallina. Il proprietario faceva finta di non vedere. Erano meravigliosi anni senza computer ed I-Pod: e senza troppe pretese.

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