I curatori del blog “Uniti per Boccadasse”, mi esortano a replicare alla lettera datata il 5 marzo 2009.
Accetto volentieri l’invito, anche per rettificare l’impressione che ha suscitato la mia posizione, solo apparentemente “radicale” e priva d’aspettative conciliatorie con il progetto e l’amministrazione. Tengo a precisare che la radicalità è solo suggerita dal linguaggio, che metodologicamente critico, può apparire inquisitorio e poco incline alla mediazione. Tuttavia, è necessario premettere che la storia dell’arte, o meglio, la critica d’arte, non presuppone punti di senseria. Se un’opera è valutata negativamente non è possibile ammorbidire il giudizio, né tanto meno giungere a compromessi. Detto ciò, visto che siamo ancora in una fase dibattimentale rispetto all’opera finita, penso che ogni intervento sia essenziale per la risoluzione del caso. Un altro aspetto che desidero chiarire è la supposta incomprensione con l’amministrazione e invito a non confondere i moniti con le accuse. Giunti a questo punto è palese che la critica sia esclusivamente indirizzata al progetto e di conseguenza all’archistar Botta, la cui storia professionale e le sue creazioni, denunciano senza indugio la sua estraneità all’edilizia residenziale e all’ideazione urbanistica.
A difesa di quest’atteggiamento allora, pongo a confronto la realizzazione da parte di Riccardo Bofill dell’edificio sito nell’antica darsena di Savona, che pur reputandolo in ogni caso sovradimensionato, si pone nel contesto con elegante leggerezza ed è da considerarsi un ottimo caso d’architettura contemporanea. Questo è solo uno dei molteplici esempi, il primo che mi passa per la mente, che è per voi visibile a pochi km da Genova e se paragonato con l’intervento boccadassino o quello sarzanese concepito da Botta, offre un immediato spunto di riflessione e determinazione critica. Nella mia lettera indicai come presunzione progettuale le altezze, ma è la qualità dell’opera che contrasta con i miei punti di vista e la realtà del territorio, tanto da esprimere il mio dissenso ad alta voce, sicuro di trovare piena condivisione. Seguendo quest’analisi, si scopre che è l’errore di sistema e di metodo con cui si è concepita la riqualificazione dell’ex rimessa a generare il dibattito, nel senso che un’ingerenza di questa portata (9000 mq) comporta da parte dei committenti e dell’amministrazione il vaglio di molteplici autori e filosofie, avendo quale obiettivo la qualità dell’edificare, in linea con le moderne istanze e precisi studi ambientali e urbanistici, tesi a tutelare il paesaggio, la coerenza volumetrica del suo tessuto, dei punti di vista prospettici, il rispetto degli abitanti e dell’arte. Ora mi sembra chiaro che questa prassi non sia stata assolutamente rispettata e che la realtà odierna richieda delicatezze e attenzioni imprescindibili quando si desidera rinnovare un quartiere, perché di questo si tratta. Allora è altrettanto normale che le persone di buon senso s’indignino quando leggono le considerazioni teorico - estetiche del dott. Botta, le sue caliginose teorie sul progetto e la leggerezza con cui descrive gli edifici e l’ambiente circostante l’area edificabile, caratterizzata tout court da palazzoni anni 70, quando al contrario, la zona presenta uno spettro di tipologie abitative assai più ampie e in molti casi di contenute dimensioni. La mia impressione è che l’apparente incomunicabilità fra le rispettive parti in causa e le critiche all’architettura partecipata, siano da ricercare nella sciatta gestione con cui s’inaugurano le “riqualificazioni”. Posto che nessuno di noi desidera ostacolare qualsivoglia costruzione, il nucleo della controversia si pone semplicemente fra la buona architettura e la pessima, tenendo bene a mente che stiamo misurando un intervento di notevolissime proporzioni, nel centro di un quartiere delicato, che non è possibile sbrigativamente licenziare con le banalità pronunciate dal dott. Botta, ne trascurando serie e imprescindibili disquisizioni d’ordine estetico. L’opera dell’archistar Botta è deprecabile, tanto da suscitare la volontà d’infrangere il linguaggio critico, usando il termine vomitevole, provando un forte senso d’irritazione, il medesimo che si prova al cospetto della disonestà intellettuale. Vorrei in questa sede sollevare un altra domanda, che è squisitamente di natura economica: i committenti sono obbligati a stimare un notevole sviluppo di metri cubi a causa dell’alto prezzo pagato per il terreno, spingendo così al massimo tutti i processi speculativi? A questo proposito desidererei leggere una relazione stilata da un professionista, con cifre e relativa glossa, per comprendere se l’eccesso edilizio sia cagionato da un peccato o un errore originale. Giunti a questo punto desidero concludere il mio scritto enunciando che sul terreno dell’ex rimessa si costruisca con la dovuta consapevolezza e che il prodotto sia un ottimo esempio contemporaneo d’architettura residenziale, che porti rispetto al decoro, alle visuali, agli abitanti e all’armonia di contesto e del paesaggio, quindi che la cultura dell’artefice e dei committenti corrispondano ai principi qui enunciati e si pongano con sincera volontà a valorizzare l’area, senza compromettere la propria professionalità e buon nome, prestandosi ad un’ennesima speculazione, con il desiderio che tutto il loro lavoro divenga esempio e argomento di libri di testo. A molti quest’affermazione potrà apparire sproporzionata, ma basta soffermarsi un attimo per rendersi conto che oltre al particolare, queste considerazioni sono alla base di sistemi collettivi che determinano la qualità generale dell’esistenza, perché una buona architettura genera una buona qualità della vita, è un baluardo contro la devianza sociale, il primo assioma per concepire il futuro dei nostri figli.
Antonio Gesino
giovedì 12 marzo 2009
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